lunedì 28 aprile 2008

Nuttata persa...

...se fossero così le nottate perse!
Ennesimo racconto dell'amica Angela... godetevelo e fatele sapere!

Nuttata persa”
“Nuttata persa e figlia fimmina”. Questo aveva detto Nicolino Borgomastro quando già l’alba indifferente aveva cominciato a delineare i contorni delle cose. E quella era stata la decima volta che gli si era sentita pronunciare quella frase, poiché in quella decima notte di febbrile attesa paterna gli era nata la decima figlia femmina.

Quando i flebili lamenti della moglie erano cessati e la levatrice era uscita dalla modesta camera matrimoniale con l’aria funerea, Nicolino si era portato le mani ai capelli e se li era strappati uno per uno con la forza della disperazione. Almeno quei miseri ciuffetti che gli erano sopravvissuti sul cranio dall’ultima “nottata persa”.

“Nicolì, non ti disperare” lo aveva consolato il compare ‘Gnazio, “avanti questo che una malattia”.

“Eh no!” aveva sbottato Nicolino “mille volte meglio un morbo letale mortifero che sfamare dieci bocche femminine”.

E mangiavano eccome quelle dieci bocche, divoravano tutto con spensierata allegria famelica, e con la stessa allegra spensieratezza crescevano, prosperavano e reclamavano. E toccava a Nicolino saziare, vestire, sostentare, vigilare e accontentare quella gioiosa brigata di esigenti fanciulle, brigata che da dieci saliva a dodici se si contavano la moglie Peppina e la suocera Filiberta.

Rosee e grassottelle cresceveno, come maialini da latte, e una volta compiuto il sedicesimo anno avevano preteso marito, ma non un marito

qualsiasi. Buoni partìti e bella presenza. E naturalmente era toccato a Nicolino dotarle di dote adeguata, roba di fini merletti e tovaglie di Fiandra. Moglie e suocera ci tenevano ad esibire quei corredi , che per giorni e giorni venivano esposti in casa ad uso e consumo delle future suocere e delle vicine di casa che venivano a visionarne qualità e quantità.

Se ne erano visti matrimoni andati in fumo perché mancava qualche camicia da notte o perché qualche lenzuolo non era adeguatamente ricamato.

Il povero Nicolino, dal canto suo, dopo quell’ultima nottata si era come chiuso in un muto silenzio pieno di rancore e aveva persino smesso di frequentare gli amici da quando, di fatto, era diventato la favola del paese.

La moglie di Nicolino, dal canto suo, dopo l’ultima fatica non ne aveva più voluto sapere del marito e, incoraggiata in questo dalla madre, aveva chiuso irreversibilmente e irrevocabilmente bottega.

“Tanto fa solo figlie femmine” lo aveva consolato ‘Gnazio, il quale, sconoscendo le leggi della genetica, non poteva certo sapere come si incrociassero realmente i cromosomi.

Nicolino non si consolava affatto, se non per la piccola vendetta che si era preso dopo che gli era divenuto chiaro, alla quarta sfornata, come sarebbero andate le cose, allorquando aveva preso cinicamente ad appioppare alle nate nomi crudeli e vendicativi. Pertanto dalla quinta in poi aveva registrato all’anagrafe, nell’ordine: Santina, Annunziatina, Crocifissa e Addolorata. Ben misera consolazione, invero. Anche perché sul nome dell’ultima Peppina e Filiberta si erano impuntate. Niente nomi “esotici”, avevano detto, la decima si chiamerà Maria, come la madre di Gesù Cristo.

Fin qui la vicenda di Nicolino potrebbe anche far bonariamente sorridere, se non fosse per il fatto che egli avesse anche altri motivi per rodersi il fegato e mangiarsi le budella. Era, infatti, presente in paese tal Nunziato Buonasorte, il quale, a tutto rispetto del nome, apparteneva a quelli talmente fortunati dei quali si dice che se cascano in mare ne riemergono con le mutande piene di pesci.

Aveva costui sposato una donna assai laida, ma di ricchissima dote, alla quale, in aggiunta, dal giorno del matrimonio non vi era stata zia, cugina, amica, madrina, vicina di casa che, tirando le cuoia, non avesse destinato laute eredità. Tuttavia non era questo a provocare in Nicolino ripetuti travasi di bile, quanto piuttosto il fatto che la moglie di Nunziato non facesse che partorire figli maschi, e lo faceva esattamente un mese dopo la sfornata femminile di Peppina. Tutti forti, gagliardi e in perfetta salute i figli di Nunziato. E così mantre la casa di Nicolino stava perennemente serrata quasi ci fosse il lutto, quella dei Buonasorte era un tripudio di feste, colori, risate, allegria.

Detto questo si capisce quanto la vicenda di Nicolino, apparentemente così comica, risultasse invece tragica e sciagurata. E ci si potrebbe anche fermare qui se non fosse che ad un certo punto si venne a verificare, per colpa di una congiuntura astrale ancora una volta sfavorevole a Nicolino, una vicenda a dir poco grottesca. Accadde, infatti, che Maria, divenuta sedicenne timidetta, rotondetta e palli detta, si innamorò perdutamente di Giuseppe, quinto figlio maschio di Nunziato, ventunenne alto, forte, robusto e bello che ci volevano occhi a guardarlo. Il quale Giuseppe ricambiò con la stessa passione il sentimento della fanciulla.

Non che se lo ebbero mai a dire, perché non solo i contatti fisici, ma perfino quelli verbali erano assolutamente proibiti tra rappresentanti di sesso diverso. Sarà forse per questo retaggio che i siciliani hanno imparato a parlarsi con gli occhi. E fu con gli occhi che Giuseppe e Maria si parlarono e si intesero alla perfezione.

La prima conversazione avvenne in chiesa il giorno della Santa Pasqua. Gli uomini col vestito della festa sedevano da un lato, le donne col velo nero della festa dall’altro lato. Incautamente Maria si trovò ad un certo punto a guardare verso il reparto maschile, mentre contemporaneamente Giuseppe volgeva il suo sguardo verso quello femminile. In pochi secondi fu un batti e ribatti di mi piaci, anche tu, fidanziamoci, mio padre mi ammazza, ci parlo

io, no per carità, ci faccio parlare da mio padre, peggio ancora: mio padre a tuo padre non lo può vedere, eccetera eccetera. Dopo di che iniziarono i sospiri e le ricerche affannose tra i fedeli che affollavano le varie processioni religiose, che erano le sole occasioni di vita sociale alle quali Maria, unica di casa Borgomastro non ancora maritata, era ammessa a partecipare.

Lo scandalo, ovvero la scoperta della virtuale tresca amorosa da parte della famiglia di Maria, avvenne durante l’affollatissima processione del santo patrono, allorquando tutto il paese, comprensivo di paralitici e ultra centenari, si riversava per le vie cittadine ad onorare l’urna cinerea.

Poiché Giuseppe faceva parte, bello com’era, della confraternita religiosa addetta al trasporto del Santo, e poiché tale confraternita teneva un passo ritmicamente preciso scandito dalla banda musicale, essendogli pervenuto uno sguardo di Maria particolarmente carico di significati metaforici, il ragazzo si confuse, sbagliò il passo, mise un piede su quello di un confratello, il quale perse l’equilibrio e cadde come corpo morto cade, tirandosi dietro gli altri confratelli e facendo rovinare impietosamente a terra il baldacchino contenete il fercolo patronale. In mezzo al trambusto, alle urla e al fuggi fuggi che ne seguì, a Maria, preoccupata, scappò un “Guseppe” prontamente intercettato e debitamente interpretato da tutta la famiglia lì riunita al gran completo, più un paio di vicine di casa di quelle che assai si interessavano delle vicende altrui.

Il Sindaco, bardato col tricolore, rassicurò la folla dal palchetto per i comizi elettorali che era stato montato per le elezioni, e invitò i confratelli a rialzare prontamente il Santo e a proseguire la processione, che tanto nessuno si era fatto male, e poi, al rientro del Santo in chiesa, ci sarebbero stati i fuochi d’artificio che nella sua devozione lui stesso avrebbe pagato di tasca. Devozione, la sua, che naturalmente non aveva nulla a che vedere con la rinnovata candidatura a Sindaco.

E mentre il Santo veniva rialzato, spolverato e rimesso in cammino, Maria veniva riportata a casa e lì segregata per mesi e mesi, senza che nessuno sentisse il bisogno di dire nulla perché tanto era stato tutto chiarissimo.

Dal canto suo Giuseppe ci provò davvero a parlare con Nicolino, si presentò, si spiegò, si propose, ma non ci fu niente da fare. A niente valsero i tentativi di rabbonirlo avanzati da Peppina e Filiberta, a niente valse l’intervento moderatore del compare ‘Gnazio, e a niente valsero gli occhi arrossati di Maria, che piangeva giorno e notte e non toccava più cibo. Non le era più permesso neanche di affacciarsi al balcone, perché Giuseppe sarebbe potuto passare di là e con uno sguardo si sarebbero intesi.

Nicolino fu irremovibile: qualunque uomo per Maria, ma non uno dei figli maschi di Nunziato.

“Me la stai rovinando questa figlia” gemeva Peppina. “Non mangia più e non dorme più. Una larva mi è diventata. Io, che l’ho cresciuta come una rosa”.

“Come un’altra cosa l’hai cresciuta tua figlia, altro che! Ma ci penso io a trovarle marito, così le passano i bollori. E guai a lei se non se lo piglia!”

E Nicolino glielo trovò davvero il marito a Maria. Un trentino mezzo scemo con la pelata e il gozzo, che aveva ereditato una fortuna da una zia monaca. Quando lo presentò a Maria la ragazza per poco non svenne.

“E’ l’emozione” disse il padre.

“Non le piace” ribatterono moglie e suocera.

“E mica deve piacerle, deve solo sposarlo!” concluse perentorio Nicolino.

Il giorno dopo la presentazione con quasi svenimento, Maria si piantò davanti ai suoi genitori e comunicò la sua decisione irreversibile di farsi suora, e il padre avrebbe dovuto accettare per forza la sua chiamata da parte del signore o sarebbe bruciato per sempre tra le fiamme dell’inferno, cosa che per altro quel pomeriggio gli venne confermata del parroco del paese.

Sempre quella stessa mattina, più o meno alla stessa ore, Giuseppe comunicava alla sua famiglia la sua decisione irreversibile di farsi prete.

A questo punto della storia assume un ruolo di primo piano il compare ‘Gnazio, al quale si dovette la soluzione di tutta la faccenda. Essendo uomo di mezza età, esperto delle cose della vita nonché assai saggio, quantunque non avesse mai studiato filosofia, decise di troncare qualunque dialogo con Nicolino e di recarsi direttamente dal vescovo.

Quest’ultimo era anch’egli uomo assai saggio, solo che in più aveva studiato la filosofia e anche il latino. Pareva fosse anche in odore di santità per la sua opera di santo apostolato. Udita dunque tutta la vicenda dei due giovani decise di intervenire in soccorso delle sante e pure anime e li convocò entrambi, ufficialmente per interrogarli sulla natura delle loro improvvise vocazioni.

Parlò con Giuseppe e poi parlò con Maria, dopo di che li riconvocò entrambi e ordinò loro di sposarsi immediatamente. Lo mise pure per iscritto con una specie di documento firmato e bollato. E per essere sicuro che l’ordine venisse rispettato, il sant’uomo il matrimonio lo celebrò di persona, con Nicolino costretto a sedere accanto a Nunziato e a tenergli la mano per tutto il tempo del Padre Nostro.

Ecco, adesso sì che la vicenda può considerarsi conclusa, con lieto fine e felicità per gli sposi, se non fosse che durante il pranzo nuziale a Nicolino ad un certo punto andò di traverso un’oliva, e solo il pronto intervento di Nunziato, che lo afferrò da dietro e gliela fece sputare praticandogli energica pressione sul torace, lo salvò in extremis. Del resto Nunziato si era sentito subito in colpa per il quasi soffocamento. Era stato infatti lui ad urlare ai novelli sposi: “Auguri e figli maschi!”.

martedì 25 marzo 2008

La Rondine

Il sole nuovo,

Tra rose appassite,

da primavera!

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Now playing: Luciano Ligabue - Ligabue - Giro D'Italia Cd2 - 03 - Una Vita Da Mediano
via FoxyTunes

venerdì 14 marzo 2008

Questi sono gli Abbot Ritorba...

UN AVIATORE ABILE

I fili dell'alta tensione contro l'alba livida
Io confido nei miei buoni presagi
La scia dell'aereo a reazione sembra sporcare l'alba livida
Con graffi e sfregi fiammanti
Io plano sopra l'inquietudine
Mi vedi?
Un aviatore abile
Sa come proiettarsi oltre solitudine
Forse ad un mondo da qui
Avrò gioia in proporzione alla pena
Pavido cuore distratto da chi
Vorrebbe sottrarmi ...
Avrò stelle a cui volgermi
Quando
Quando uscirò dalla scena
Rancido cuore distrutto da chi
Vorrebbe solo prendersi, vorrebbe solo fottermi ...
Scappo da quest'invidia minima
Cerco la rotta per sfuggire ai retaggi
All'inferno quest'invidia minima
E i falsi miraggi
Io oltrepasso moltitudine
Mi vedi?
Qui nell'atmosfera libera
Ogni rimpianto è muto
Forse in un mondo così
Avrò compagni a guardarmi la schiena
Nè false lusinghe nè il gesto di chi vuole annientarmi
Avrò braccia a sorreggermi ...
Quando
Quando cadrò nell'arena
Rancido cuore ditrutto da chi
Vorrebbe solo prendersi, vorrebbe solo rubarmi ...
La mia eterea immobilità

Nuova canzone di Genio&Friends... Poesia su musica...

domenica 9 marzo 2008

Sagacia sicula...

Amici per tutti noi il nuovo racconto di Angela, che tra l'altro ha vinto un signor concorso con "La storia di Salvatore Siciliano", che trovate qui:

La Squadra dei Sogni: Storia di Salvatore Siciliano detto Sasa'.

... godiamocelo...

DEI PROMESSI SPOSI

ovvero “come ti uccido il professore di italiano”

Gli alunni della VA del Liceo Classico “V.Monti” di Petrusa erano davvero preoccupati. Quell’anno era stato assegnato alla loro classe, come docente di italiano e storia, il vecchio professore Pietro Putrone detto “IL Generale”. Già di per sé i suoni chiusi, aspri e duri del suo nome anagrafico erano tutto un programma, ma il soprannome la diceva davvero lunga sull’indole austèra, rigida e militaresca di quel famigerato uomo di lettere.

La preside Luisa Sensini, dal canto suo, lo adorava di un’adorazione mistica e soprannaturale, al punto da averlo nominato vice preside a tempo indeterminato, riuscendo, in tal modo, a bilanciare una dirigenza che altrimenti sarebbe stata troppo rosea e delicata.

I suoi colleghi, invece, si erano divisi in due correnti di pensiero. Da un lato c’erano quelli che sostenevano essere egli solo un perfido, borioso, spocchioso, presuntuoso, “ma chi si crede di essere ci tratta tutti come se fossimo inferiori sarebbe ora che andasse in pensione. Dall’altro lato la maggior parte decantava la sua sconfinata cultura, il rigore professionale, l’efficacia dei suoi metodi tradizionali, l’attaccamento stakanovistico al lavoro.

Su quest’ultimo punto avevano ragione. Il professore Putrone non si assentava mai (anche perché aveva una salute di ferro) e odiava le vacanze natalizie, le vacanze pasquali, le feste patronali, il primo maggio, le vacanze estive e qualunque giorno che sul calendario fosse di colore rosso. L’unica solennità che la sua mente obliqua approvasse era quella del due giugno, festa della Repubblica, allorquando assisteva davanti al televisore alla parata militare che si svolgeva a Roma. E c’era chi fosse pronto a giurare che due lagrimucce gli comparissero furtive al passaggio della fanfara dei bersaglieri. Per il resto Putrone da oltre quarant’anni arrivava a scuola alle sette e trenta precise, proprio mentre i bidelli aprivano i cancelli, e alle sette e trentacinque era già in aula col registro di classe aperto e una decina di libri disposti in bell’ordine sulla cattedra.

E sì, perché Putrone mica usava solo i libri di testo. E no! Lui integrava, arricchiva, aggiungeva, completava. E i ragazzi avevano un bel da fare a prendere appunti, perché poi, durante l’interrogazione, guai a saltare una virgola.

I genitori facevano a gara per inserire i loro figliuoli nelle classi di Putrone, nella scellerata convinzione che questo avrebbe costituito per loro una irripetibile occasione educativa e formativa.

E dunque anche quell’anno Putrone si apprestava a seminare terrore e distruzione, e la sua indole sterminatrice si metteva all’opera soprattutto al ginnasio, perché “è al biennio che occorre operare una rigorosa selezione chi non si mostra degno di frequentare il nostro glorioso liceo è meglio che cambi indirizzo di studi”. Putrone, però, aveva attribuito un’accezione personalistica all’aggettivo “degno”. Chissà perché “degni” erano quasi sempre i rampolli di determinate categorie sociali.

Il ventitre settembre Putrone entrò in VA armato delle peggiori intenzioni, e per le due ore che vi rimase non fece che minacciare, intimidire, profetizzare, ammonire, vituperare. Il Generale, però, non aveva fatto bene i suoi conti, perché la VA aveva un grosso difetto, una di quelle storture che professori come lui non tolleravano e non sapevano come affrontare. I ragazzi di quella classe avevano maturato l’insana abitudine di pensare con la propria testa, di intervenire, di partecipare, di chiedere sempre il perché e il percome. Insomma, erano perfettamente in grado non solo di saltare qualche virgola, ma di aggiungerne a loro discrezione.

La patologia creativa di quegli alunni intellettualmente indisciplinati si manifestò soprattutto quando iniziarono ad essere sottoposti alla rigida terapia invasiva della lettura integrale dei Promessi Sposi.

Ora, bisogna sapere che per Putrone la letteratura italiana cominciava e finiva con i Promessi Sposi di Alessandro Manzoni, “punto di riferimento letterario di valore universale, colonna portante e fondamento della nostra insigne tradizione culturale”.

Per essi nutriva una devozione religiosa, un rispetto filiale, una dedizione assoluta. La collocazione scolastica e l’insegnamento sistematico di tale capolavoro era stato, era, e sarebbe sempre stato indiscusso e indiscutibile.

Putrone ricordava ancora con raccapriccio l’animato collegio dei docenti dell’anno precedente, allorquando una giovane supplente temeraria e alternativa aveva proposto l’adozione di un testo antologico dei Promessi Sposi, “perché tanto non si riesce a leggerli tutti, e poi magari si potrebbe affiancargli la lettura di autori contemporanei, che so, Svevo Calvino Moravia”. Non era riuscita a completare l’intervento perché Putrone diventando prima paonazzo, poi violaceo indi bluette, aveva catalizzato l’attenzione di tutti, che, nel trambusto dei soccorsi, dimenticarono di mettere la questione ai voti. La qual questione venne subito accantonata e definitivamente dimenticata una volta terminata la supplenza della sovversiva.

Gli studenti della VA per tutto l’anno scolastico ebbero un bel da fare a leggere, riassumere, commentare, riverire, vivisezionare capitoli su capitoli. E se a volte sui pudori virginei di Lucia alle più disinibite fanciulle contemporanee scappava un sorriso, o durante le lunghe digressioni sulla peste scattavano inesorabili gli sbadigli, e allora erano invettive, anatemi, note disciplinari, accompagnamenti, punizioni che rasentavano il corporale.

Fu così che in un’accesa e creativa assemblea di classe di fine anno gli alunni maturarono un sacrilego progetto: mandare al rogo Putrone e i suoi Promessi Sposi.

E questo fecero.

Organizzarono tutto fin nei minimi dettagli. Quello stesso sabato, alle undici di sera, avrebbero condotto il Generale, precedentemente rapito, sulla spiaggia ancora deserta della Plaia, e lì avrebbero innalzato una pira dove lui e i Promessi Sposi sarebbero stati arsi vivi.

Dovettero, però, anticipare l’orario in quanto una delle loro madri aveva detto che se volevano rapire il professore e bruciarlo dovevano farlo entro le nove perché poi avevano parenti a cena.

E così fu tutto allestito entro le otto.

La sabbia, a fine maggio, era ancora fresca e la serata si presentava frizzante e generosa.

Disposta la legna a piramide come per i falò di ferragosto i ragazzi vi sistemarono sopra Putrone legato e imbavagliato, con il suo volume dei Promessi Sposi infilato dentro la cintura dei pantaloni.

Per carità! Non era certo il vero Putrone. E che diamine! Erano pur sempre dei bravi ragazzi! Il loro era un manichino tale e quale, una stampa e una figura, stessa altezza, stessi vestiti, stessi occhiali, stessa perfida espressione negli occhi. Di autentico c’era, invece, il volume manzoniano. Quello era proprio il suo, quello che possedeva da cinquanta anni, abilmente sottrattogli in sale dei professori, dove lo aveva incautamente lasciato dopo che, bevuto un caffè amorevolmente portatogli dal rappresentante di classe, per cause sconosciute era dovuto scappare in bagno.

Il loro fu, più che altro, un atto simbolico, catartico, liberatorio, goliardico.

E fu con goliardia che diedero fuoco alla pira e rimasero ad ascoltare lo scoppiettio delle fiamme, il crepitio della legna, lo sfrigolio delle pagine riarse, e ad ammirare il luccichio sfavillante delle lingue di fuoco che raggiungevano l’azzurro tardo di quella sera pre-estiva.

Sennonché accadde che una lieve brezza vespertina facesse volare alcune pagine del volume ai piedi degli improvvisati piromani. I quali, dopo averle raccolte, cominciarono, così, per scherzo, a leggerle. E che strano dovette sembrare loro ascoltare quelle parole con l’intonazione delle loro voci. E che bello quell’addio ai monti recitato dalla voce soave e malinconica di Marta, che faceva teatro e in queste cose era davvero brava. E quell’incontro tra i bravi e don Abbondio improvvisato gioiosamente sulla sabbia? Per non dire di Veronica, ottanta chili di simpatia, che, con le mani ai fianchi e il suo vocione sicuro e robusto, stava dando vita ad una straordinaria Perpetua.

Insomma, nel giro di pochi minuti quelle pagine che Putrone aveva tanto fatto odiare appesantendole per giunta con gli osceni giudizi di questo o quel critico letterario, si erano salvate dalle fiamme per prendere vita tra le mani di quei giovani, per risuonare nelle loro voci allegre e spensierate come una sinfonia corale, arricchite del loro spirito creativo, onorate dalla loro leggerezza, mentre poco più distante gli occhi grigi del generale fantoccio guardarono mestamente prima che gli ultimi sprazzi del fuoco li avvolgessero.

sabato 8 marzo 2008

Per ritornare come si deve...

Città

Maschere a contorni netti

Recitano

Nel teatro della strada

Personaggi in città

Dove un posto è oro

In società

Sangue.



Recitavo nel titolo...Per ritornare come si deve è d'obbligo una poesia... Spero vi piaccia, spero riesca a colpirvi, spero che si lasci penetrare a fondo dal vostro sentire, spero sia malleabile, duttile sotto i colpi della vostra sensibilità pungente...

Sempre con immenso affetto e stima il vostro Gino, salumiere pseudo-poeta.

mercoledì 5 marzo 2008

Si dicia si...

Ma davvero pensavate che non sarei più tornato?
Sbagliato!
Sono di nuovo qui!

domenica 24 febbraio 2008

Un saluto...

Un saluto amici miei a chi partecipa e a chi legge...
Un saluto che non vuole sembrare un commiato, ma che ne ha tanto il sapore...
Continuate se credete...

In bocca al lupo.

lunedì 28 gennaio 2008

Le All-Star

E mentre stanco

Accarezzavo la terra,

Cercando i lacci delle scarpe,

Il sole, sornione, sorgeva ancora!

martedì 8 gennaio 2008

...finalmente!

Finalmente oggi è arrivata una delle antologie che contengono una mia poesia...

Titolo antologia: "Tra un fiore colto e l'altro donato" (Vol. V - parte 1)
Casa Editrice: Aletti Editore
Autore: AA.VV.

...ed esattamente a pag 97 trovate la mia poesia, che ovviamente amici miei vi faccio leggere:

PRIMAVERA
Il sole ti spinge
e l'erba
morbida
ti accoglie
mentre sorridi
felice
mentre il vento
lucignolo
ti fa socchiudere gli occhi.
Io ti siedo accanto
senza parole
fra bufere
che mi scuotono
insaziabili
prendono il mio cuore
lo calpestano
e lo incoronano.
Sento te
nient'altro
solo la tua voce
e le tue mani
tra le mie
...
mentre un sorriso
mi increspa gli occhi.

...vi è piaciuta?
Spero di si...

Il Viaggio Verso Casa

Lentamente...

Raramente

Procedo

Lentamente!

Eppure stasera,

Nella foschia che silenzia la strada

E l'orizzonte notturno

Della Mater Mereticio,

Scopro la violenta necessità

Di rallentare.

Un piccolo tragitto,

Che vorrei trasformare in viaggio notturno,

In pellegrinaggio,

Verso luoghi di ludibrio,

Verso morbide braccia,

Si trasforma in momento di pure riflessione.

E la freccia dimenticata indica la mia via...

All'uscita dal tunnel sei ancora presente

Ti sento forte sapendo di averti perso,

Di averti già tradita.

Ti ritrovo adesso sulle punte delle dita,

Cercando, nei bui corridoi dove amo rintanarmi,

Ritrovo, forse,

La magia della prima ispirazione!

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Listening to: Rolling Stones - Anybody Seen My Baby
via FoxyTunes