Ennesimo racconto dell'amica Angela... godetevelo e fatele sapere!
“Nuttata persa”
Quando i flebili lamenti della moglie erano cessati e la levatrice era uscita dalla modesta camera matrimoniale con l’aria funerea, Nicolino si era portato le mani ai capelli e se li era strappati uno per uno con la forza della disperazione. Almeno quei miseri ciuffetti che gli erano sopravvissuti sul cranio dall’ultima “nottata persa”.
“Nicolì, non ti disperare” lo aveva consolato il compare ‘Gnazio, “avanti questo che una malattia”.
“Eh no!” aveva sbottato Nicolino “mille volte meglio un morbo letale mortifero che sfamare dieci bocche femminine”.
E mangiavano eccome quelle dieci bocche, divoravano tutto con spensierata allegria famelica, e con la stessa allegra spensieratezza crescevano, prosperavano e reclamavano. E toccava a Nicolino saziare, vestire, sostentare, vigilare e accontentare quella gioiosa brigata di esigenti fanciulle, brigata che da dieci saliva a dodici se si contavano la moglie Peppina e la suocera Filiberta.
Rosee e grassottelle cresceveno, come maialini da latte, e una volta compiuto il sedicesimo anno avevano preteso marito, ma non un marito
qualsiasi. Buoni partìti e bella presenza. E naturalmente era toccato a Nicolino dotarle di dote adeguata, roba di fini merletti e tovaglie di Fiandra. Moglie e suocera ci tenevano ad esibire quei corredi , che per giorni e giorni venivano esposti in casa ad uso e consumo delle future suocere e delle vicine di casa che venivano a visionarne qualità e quantità.
Se ne erano visti matrimoni andati in fumo perché mancava qualche camicia da notte o perché qualche lenzuolo non era adeguatamente ricamato.
Il povero Nicolino, dal canto suo, dopo quell’ultima nottata si era come chiuso in un muto silenzio pieno di rancore e aveva persino smesso di frequentare gli amici da quando, di fatto, era diventato la favola del paese.
La moglie di Nicolino, dal canto suo, dopo l’ultima fatica non ne aveva più voluto sapere del marito e, incoraggiata in questo dalla madre, aveva chiuso irreversibilmente e irrevocabilmente bottega.
“Tanto fa solo figlie femmine” lo aveva consolato ‘Gnazio, il quale, sconoscendo le leggi della genetica, non poteva certo sapere come si incrociassero realmente i cromosomi.
Nicolino non si consolava affatto, se non per la piccola vendetta che si era preso dopo che gli era divenuto chiaro, alla quarta sfornata, come sarebbero andate le cose, allorquando aveva preso cinicamente ad appioppare alle nate nomi crudeli e vendicativi. Pertanto dalla quinta in poi aveva registrato all’anagrafe, nell’ordine: Santina, Annunziatina, Crocifissa e Addolorata. Ben misera consolazione, invero. Anche perché sul nome dell’ultima Peppina e Filiberta si erano impuntate. Niente nomi “esotici”, avevano detto, la decima si chiamerà Maria, come la madre di Gesù Cristo.
Fin qui la vicenda di Nicolino potrebbe anche far bonariamente sorridere, se non fosse per il fatto che egli avesse anche altri motivi per rodersi il fegato e mangiarsi le budella. Era, infatti, presente in paese tal Nunziato Buonasorte, il quale, a tutto rispetto del nome, apparteneva a quelli talmente fortunati dei quali si dice che se cascano in mare ne riemergono con le mutande piene di pesci.
Aveva costui sposato una donna assai laida, ma di ricchissima dote, alla quale, in aggiunta, dal giorno del matrimonio non vi era stata zia, cugina, amica, madrina, vicina di casa che, tirando le cuoia, non avesse destinato laute eredità. Tuttavia non era questo a provocare in Nicolino ripetuti travasi di bile, quanto piuttosto il fatto che la moglie di Nunziato non facesse che partorire figli maschi, e lo faceva esattamente un mese dopo la sfornata femminile di Peppina. Tutti forti, gagliardi e in perfetta salute i figli di Nunziato. E così mantre la casa di Nicolino stava perennemente serrata quasi ci fosse il lutto, quella dei Buonasorte era un tripudio di feste, colori, risate, allegria.
Detto questo si capisce quanto la vicenda di Nicolino, apparentemente così comica, risultasse invece tragica e sciagurata. E ci si potrebbe anche fermare qui se non fosse che ad un certo punto si venne a verificare, per colpa di una congiuntura astrale ancora una volta sfavorevole a Nicolino, una vicenda a dir poco grottesca. Accadde, infatti, che Maria, divenuta sedicenne timidetta, rotondetta e palli detta, si innamorò perdutamente di Giuseppe, quinto figlio maschio di Nunziato, ventunenne alto, forte, robusto e bello che ci volevano occhi a guardarlo. Il quale Giuseppe ricambiò con la stessa passione il sentimento della fanciulla.
Non che se lo ebbero mai a dire, perché non solo i contatti fisici, ma perfino quelli verbali erano assolutamente proibiti tra rappresentanti di sesso diverso. Sarà forse per questo retaggio che i siciliani hanno imparato a parlarsi con gli occhi. E fu con gli occhi che Giuseppe e Maria si parlarono e si intesero alla perfezione.
La prima conversazione avvenne in chiesa il giorno della Santa Pasqua. Gli uomini col vestito della festa sedevano da un lato, le donne col velo nero della festa dall’altro lato. Incautamente Maria si trovò ad un certo punto a guardare verso il reparto maschile, mentre contemporaneamente Giuseppe volgeva il suo sguardo verso quello femminile. In pochi secondi fu un batti e ribatti di mi piaci, anche tu, fidanziamoci, mio padre mi ammazza, ci parlo
io, no per carità, ci faccio parlare da mio padre, peggio ancora: mio padre a tuo padre non lo può vedere, eccetera eccetera. Dopo di che iniziarono i sospiri e le ricerche affannose tra i fedeli che affollavano le varie processioni religiose, che erano le sole occasioni di vita sociale alle quali Maria, unica di casa Borgomastro non ancora maritata, era ammessa a partecipare.
Lo scandalo, ovvero la scoperta della virtuale tresca amorosa da parte della famiglia di Maria, avvenne durante l’affollatissima processione del santo patrono, allorquando tutto il paese, comprensivo di paralitici e ultra centenari, si riversava per le vie cittadine ad onorare l’urna cinerea.
Poiché Giuseppe faceva parte, bello com’era, della confraternita religiosa addetta al trasporto del Santo, e poiché tale confraternita teneva un passo ritmicamente preciso scandito dalla banda musicale, essendogli pervenuto uno sguardo di Maria particolarmente carico di significati metaforici, il ragazzo si confuse, sbagliò il passo, mise un piede su quello di un confratello, il quale perse l’equilibrio e cadde come corpo morto cade, tirandosi dietro gli altri confratelli e facendo rovinare impietosamente a terra il baldacchino contenete il fercolo patronale. In mezzo al trambusto, alle urla e al fuggi fuggi che ne seguì, a Maria, preoccupata, scappò un “Guseppe” prontamente intercettato e debitamente interpretato da tutta la famiglia lì riunita al gran completo, più un paio di vicine di casa di quelle che assai si interessavano delle vicende altrui.
Il Sindaco, bardato col tricolore, rassicurò la folla dal palchetto per i comizi elettorali che era stato montato per le elezioni, e invitò i confratelli a rialzare prontamente il Santo e a proseguire la processione, che tanto nessuno si era fatto male, e poi, al rientro del Santo in chiesa, ci sarebbero stati i fuochi d’artificio che nella sua devozione lui stesso avrebbe pagato di tasca. Devozione, la sua, che naturalmente non aveva nulla a che vedere con la rinnovata candidatura a Sindaco.
E mentre il Santo veniva rialzato, spolverato e rimesso in cammino, Maria veniva riportata a casa e lì segregata per mesi e mesi, senza che nessuno sentisse il bisogno di dire nulla perché tanto era stato tutto chiarissimo.
Dal canto suo Giuseppe ci provò davvero a parlare con Nicolino, si presentò, si spiegò, si propose, ma non ci fu niente da fare. A niente valsero i tentativi di rabbonirlo avanzati da Peppina e Filiberta, a niente valse l’intervento moderatore del compare ‘Gnazio, e a niente valsero gli occhi arrossati di Maria, che piangeva giorno e notte e non toccava più cibo. Non le era più permesso neanche di affacciarsi al balcone, perché Giuseppe sarebbe potuto passare di là e con uno sguardo si sarebbero intesi.
Nicolino fu irremovibile: qualunque uomo per Maria, ma non uno dei figli maschi di Nunziato.
“Me la stai rovinando questa figlia” gemeva Peppina. “Non mangia più e non dorme più. Una larva mi è diventata. Io, che l’ho cresciuta come una rosa”.
“Come un’altra cosa l’hai cresciuta tua figlia, altro che! Ma ci penso io a trovarle marito, così le passano i bollori. E guai a lei se non se lo piglia!”
E Nicolino glielo trovò davvero il marito a Maria. Un trentino mezzo scemo con la pelata e il gozzo, che aveva ereditato una fortuna da una zia monaca. Quando lo presentò a Maria la ragazza per poco non svenne.
“E’ l’emozione” disse il padre.
“Non le piace” ribatterono moglie e suocera.
“E mica deve piacerle, deve solo sposarlo!” concluse perentorio Nicolino.
Il giorno dopo la presentazione con quasi svenimento, Maria si piantò davanti ai suoi genitori e comunicò la sua decisione irreversibile di farsi suora, e il padre avrebbe dovuto accettare per forza la sua chiamata da parte del signore o sarebbe bruciato per sempre tra le fiamme dell’inferno, cosa che per altro quel pomeriggio gli venne confermata del parroco del paese.
Sempre quella stessa mattina, più o meno alla stessa ore, Giuseppe comunicava alla sua famiglia la sua decisione irreversibile di farsi prete.
A questo punto della storia assume un ruolo di primo piano il compare ‘Gnazio, al quale si dovette la soluzione di tutta la faccenda. Essendo uomo di mezza età, esperto delle cose della vita nonché assai saggio, quantunque non avesse mai studiato filosofia, decise di troncare qualunque dialogo con Nicolino e di recarsi direttamente dal vescovo.
Quest’ultimo era anch’egli uomo assai saggio, solo che in più aveva studiato la filosofia e anche il latino. Pareva fosse anche in odore di santità per la sua opera di santo apostolato. Udita dunque tutta la vicenda dei due giovani decise di intervenire in soccorso delle sante e pure anime e li convocò entrambi, ufficialmente per interrogarli sulla natura delle loro improvvise vocazioni.
Parlò con Giuseppe e poi parlò con Maria, dopo di che li riconvocò entrambi e ordinò loro di sposarsi immediatamente. Lo mise pure per iscritto con una specie di documento firmato e bollato. E per essere sicuro che l’ordine venisse rispettato, il sant’uomo il matrimonio lo celebrò di persona, con Nicolino costretto a sedere accanto a Nunziato e a tenergli la mano per tutto il tempo del Padre Nostro.
Ecco, adesso sì che la vicenda può considerarsi conclusa, con lieto fine e felicità per gli sposi, se non fosse che durante il pranzo nuziale a Nicolino ad un certo punto andò di traverso un’oliva, e solo il pronto intervento di Nunziato, che lo afferrò da dietro e gliela fece sputare praticandogli energica pressione sul torace, lo salvò in extremis. Del resto Nunziato si era sentito subito in colpa per il quasi soffocamento. Era stato infatti lui ad urlare ai novelli sposi: “Auguri e figli maschi!”.