domenica 18 novembre 2007

La Scuola Superiore che Sorgeva...

LA SCUOLA SUPERIORE CHE SORGEVA…

La scuola superiore che sorgeva nel pieno centro storico della cittadina di Alicanti era sempre stata alquanto bizzarra e atipica, e quello che successe nel corso dell’anno scolastico 1998-99, e che qualunque altra scuola avrebbe salutato come un evento provvidenziale, qui venne invece considerato una vera e propria sciagura.

Di questa scuola era insolita , innanzitutto, la denominazione. Lungi, infatti, dall’attribuirle il tradizionale e rassicurante nome di qualche dio dell’Olimpo letterario o scientifico l’avevano intitolata all’autoctono Eliodoro Mastrangelo detto u’scinziatu.

Questi aveva vissuto gran parte della sua vita relegato in una vecchia cascina di campagna dove trascorreva le giornate tentando esperimenti più o meno scientifici volti a scoprire cure o rimedi per questa o quella malattia, a confutare le leggi di questo o quello scienziato, a elaborare teoremi matematici su figure geometriche di sua invenzione. Le notti, invece, le trascorreva scrutando il cielo alla ricerca di forme di vita extraterrestri, della cui esistenza era assolutamente certo da quando un oggetto luminoso, non meglio identificato, volteggiando sul suo pollaio vi aveva smaterializzato tutti i polli ivi contenuti.

Naturalmente il paese si era diviso tra chi lo considerava un genio e chi un pazzo, mentre i bambini, che notoriamente non si occupano di dispute filosofiche, si limitavano a lanciargli addosso lucertole morte quelle rare volte in cui passava per strada. Fatto sta che dopo la sua morte, causata da una esplosione la cui natura non fu mai accertata, per qualche tempo nessuno ne parlò più. Finché un giorno, divenuto sindaco di Alicanti tale Gilberto Mastrangelo, che del suddetto era nipote, e dovendo assegnarsi un nome alla erigenda scuola superiore, il neo eletto perorò caldamente a chi di dovere la causa del defunto zio, insigne studioso e ricercatore, luminare e vate della particella atomica, lustro e vanto della, di tutto ciò, ignara cittadella.

E fu così che Alicanti ebbe il suo Istituto superiore con tanto di nome, cognome e ‘nciùria, ovvero il “Liceo scientifico Eliodoro Mastrangelo detto u scinziatu”. Il quale liceo esteticamente era quanto di più bizzarro si potesse immaginare, e stava all’ambiente circostante come un accordo di Fa diesis minore in una sonata in Do maggiore.

L’architetto che lo aveva progettato, e che casualmente si chiamava Salvatore Mastrangelo, aveva ideato una specie di edificio in stile barocco-rococò, la cui facciata esterna era un tripudio di portici, loggiati, colonne, pilastri e pilastrini, con tanto di ingresso sormontato da un frontone. Ma il colpo di genio era stato quello di realizzare al posto della canonica palestra uno squisito giardino interno con una sobria fontana sormontata da una copia in marmo rosa della Nike di Samotracia.

Il sovrintendente ai lavori pubblici, che casualmente aveva sposato la sorella dell’architetto, essendo per natura particolarmente sensibile al fascino delle arti, davvero non se la sentì di mortificare il fervore creativo del Borromini di Alicanti. E così i ragazzi avevano dovuto adattarsi a fare qualche corsetta e qualche esercizio a corpo libero tra gli ameni vialetti, mentre i più facinorosi, durante la pausa ricreativa, facevano saltare a colpi di pietre i pisellini dei numerosi putti che nella fontana facevano pipì.

Ed eccola dunque lì la scuola, bella come una caramella zuccherosa e maestosa come una opulenta matrona romana dopo un lauto convivio.

Si ergeva ed operava già da una ventina di anni e, come tutte le scuole, sopravviveva tra chiasso, disordine, manifestazioni, occupazioni, atti vandalici, professori distratti, genitori disperati, presidi latitanti. Questi ultimi, quando riuscivano a conservare un barlume di integrità fisica e mentale, facevano le valigie prima ancora che l’anno scolastico si concludesse.

Andò avanti così fino all’anno scolastico 1998-99, allorquando arrivò lui, il Preside di ferro, il terrore degli imberbi, lo sterminatore dell’alunno parassita, l’incubo del professore perdigiorno, il virus letale del bidello scansafatiche, il sogno proibito del genitore “nonsopiùcomefareconmiofiglio”.

Si presentò la mattina del primo Settembre con i suoi centoventi chili distribuiti verticalmente in un metro e ottanta, mascelle serrate, bocca sottile e contratta, occhietti volpini.

Si chiamava Filippo Dispotamo, veniva da Milano e per prima cosa proclamò che la pacchia era finita.

E così fu.

In breve tempo la scuola si trasformò in un modello di serietà ed efficienza. Disciplina, ordine e rigore spartano regnarono sovrani. Tutto veniva scrupolosamente controllato dal Preside, il quale, a dispetto delle più elementari conquiste democratiche, tutto vagliava e tutto decideva, e la sua non era l’ultima, ma l’unica parola che veniva detta.

Paradossalmente gli alunni, che pure si vedevano inflitte note disciplinari persino per aver alzato troppo il sopracciglio durante l’interrogazione di matematica, si erano presto adattati al nuovo clima dittatoriale, perché in fondo ai loro cuori di cuccioli disorientati avvertivano per istinto il bisogno di una guida austèra, e nei recessi più profondi dell’anima anelavano da sempre a una scuola che fornisse un’istruzione adeguata ai loro bisogni cognitivi ed evolutivi e al loro status naturale e giuridico di studenti.

Di contro, tutto il personale scolastico, dapprima cauto e circospetto, non essendo dotato di capacità di adattamento tali da sopravvivere a così bruschi cambiamenti climatici, era piombato nella più nera disperazione. E qualcuno, anzi , aveva preferito cambiare aria da quando Dispotamo, a seguito di anonime segnalazioni, si era appostato dietro le porte ad ascoltare le lezioni, e avendo sentito un sedicente docente di storia asserire che i Vespri siciliani fossero una nobile famiglia di Partitico, aveva preso l’insana abitudine di interrogare scrupolosamente i professori.

Fu proprio tra questi ultimi che si insinuò e maturò il seme della sovversione.

Stanchi di dover studiare, preparare le lezioni, correggere scrupolosamente i compiti in classe, verificare, annotare, verbalizzare, tenere in ordine i registri, scrutinare, aggiornarsi, arrivare puntuali in classe, e il tutto per uno stipendio da fame, decisero di costitutire una setta segreta, una specie di massoneria scolastica, al fine di sobillare, istigare, rimuovere, rovesciare, deporre e, indi, ripristinare l’ordine antequam.

Ebbero così inizio tutta una serie di ritorsioni ai danni del barbaro invasore, dalle lettere anonime contenenti le più svariate minacce, alle ruote della macchina perennemente bucate, al ritratto di Dante Alighieri che prendeva vita e levitava tra i corridoi inseguito da orde di ragazzini vocianti. E le improvvise emicranie che di punto in bianco colpivano l’oggetto dell’azione vendicativa non erano che il felice esito di una serie di riti vudù che la professoressa di storia dell’arte Marilla Frizzi aveva appreso in un suo recente viaggio ad Haiti e che, rispetto alle locali magarìe, aveva trovato più divertenti ed efficaci.

Naturalmente di tutto questo vennero incolpati gli alunni, e fu tutto un proliferare di circolari, consigli di classe straordinari, collegi dei docenti interminabili, accesi dibattiti. Tuttavia, non trovando i colpevoli, il Preside aveva dovuto arrendersi.

Non poteva certo sospettare che in sua assenza il vicepreside spalmasse di colla vinilica i manici della sua ventiquattrore, o che i professore alterassero le date dei ricevimenti per cui sciami di genitore inferociti si presentavano in presidenza perché il pomeriggio prima avevano trovato la scuola chiusa.

E così ebbe fine la breve e gloriosa dittatura scolastica del Preside Filippo Dispotamo, il quale, in preda ad una crisi di nervi dopo che qualcuno aveva scoordinato le sue coordinate bancarie e lo stipendio era finito a chissà chi, aveva fatto i bagagli ed era andato via senza salutare.

La nuova Preside, la signora Lella Santa, un metro e quaranta di bontà pasticcera, venne accolta da un generale sospiro di sollievo, premurosamente collocata in Presidenza, amorevolmente vezzeggiata e coccolata. Perché fu subito chiaro a tutti che il suo amabile sorriso avrebbe riportato ordine , pace e serenità.

E così gli studenti ricominciarono a far chiasso, i docenti a chiacchierare e a fumare, i bidelli a vagabondare per i corridoi.

Ripristinato lo status quo tornarono tutti felici e contenti e ogni apparve perfetta, se non fosse stato per un piccolo e insignificante particolare. Degli ultimi sviluppi tutti dimenticarono di avvisare la svampita professoressa Marilla Frizzi, la quale continuò fino alla fine dei suoi giorni e anche oltre, a conficcare allegri spilloni su un fantoccio che era in tutto e per tutto identico, uguale, preciso, spiccicato al povero, infelice, sfortunato, miserrimo preside Filippo Dispotamo.


Questo racconto è stato scritto da Angela Mancuso da Licata, dunque mia concittadina, che saluto e che invito ad essere una assidua sostenitrice della nostra Squadra.
Complimenti Angela, davvero un bel lavoro!

3 commenti:

LuisellaPagnottella ha detto...

Uno spaccato della vita siciliana davvero dettagliato e scanzonato...e anche un pò canzonatorio, no?
...proprio un bel racconto!!!

Unknown ha detto...

Angela, davvero un bel lavoro... l'ho letto più attentamente e devo dire che rende molto l'atmosfera della scuola, solo un appunto: io lavorerei sulla scorrevolezza che a volte sacrifichi per aumentare l'intensità delle descrizioni, che peraltro vanno già bene...
Alla prossima!

polle ha detto...

Bel lavoro davvero, Angela, complimenti!!!